La letteratura esisterà finché qualcuno avrà voglia di raccontare la realtà con la parola scritta. E non venite a dirmi che è giornalismo, con tutto il dovuto rispetto per questa professione: da una parte abbiamo le notizie, i fatti nudi e crudi. Dall’altra, abbiamo la letteratura, il racconto di uno spicchio di realtà fatto non solo attraverso i fatti, ma a anche e soprattutto attraverso la narrazione dei luoghi e delle persone. Un buon personaggio, per me, è un archetipo, una sintesi di un certo tipo di umanità. È una figura immaginaria che permette al lettore, e talvolta anche allo scrittore, di conoscere e capire la visione, i sogni, le ambizioni, le paure, i conflitti, le contraddizioni, le opinioni, insomma, tutti gli aspetti che compongono l’identità del gruppo X che si sta raccontando.
È questo il grande potere della narrazione: raccontare la verità attraverso la finzione, ma non per scopi morali, non per dare giudizi. Per permettere di capire. Non abbiamo bisogno di condanne e assoluzioni, la letteratura non è un ramo della legge. È uno strumento per capire, per crescere, per viaggiare, per vivere altre vite, seppure per poche ore, per appassionarsi e divertirsi, in tutti i sensi della parola. Ed è per questo che amo la letteratura, e detesto chi la vuole ingabbiare in qualcosa di postumo, di già finito, da tramandare alle generazioni future come se fosse storia, e non materia viva e pulsante. È per questo che non tollero chi dà più importanza allo stile che al resto: conoscere una persona colta e pretenziosa può essere un’esperienza interessante una volta, due, ma non sempre. È per questo che frequento poco volentieri la narrativa fantastica ma sempre più spesso l’autobiografia: non mi interessa l’essere umano in assoluto, voglio la persona legata a un luogo, che parla, pensa e si comporta secondo le regole non scritte di quel posto preciso.